I

La vita

Abbondantissimo è il materiale autobiografico che il Goldoni volle fornire al suo pubblico, prima nelle narrazioni delle sue vicende e del loro rapporto con le proprie opere, premesse ai vari volumi dell’edizione Pasquali delle Commedie, iniziata a Venezia nel 1761, ma interrotta al volume diciassettesimo, poi, piú compiutamente e organicamente, dall’alto della vita ormai conclusa e dell’opera compiuta, nei Mémoires pour servir à l’histoire de sa vie et à celle de son théâtre, iniziati a Parigi nel 1783-1784 e ivi completati e pubblicati nel 1787, presso l’editore Duchesne.

In questa opera della vecchiaia ancora alacre e ottimistica, malgrado le difficoltà finanziarie e gli acciacchi della salute, il Goldoni mirò soprattutto a unire indissolubilmente la sua favola vitale – scandita nella sua avventurosità, nella sua spontaneità, nelle sue fiduciose risorse di fondamentale onestà e sincerità, di laboriosità inesausta, di resistenza dell’uomo «tranquillo» e di «sangue freddo» all’urto dei casi e delle inimicizie umane – con la storia della sua vocazione e missione teatrale recuperata minutamente nello sgorgo delle varie opere, legate, pur nella loro varia origine occasionale, da un denso filo di necessità nella natura poetico-comica del loro autore, nella unità delle sue esperienze di «mondo» e di «teatro», termini fermi della sua visione vitale ed artistica.

È alla luce di quel materiale e di quella narrazione autentica (che può comportare qualche salto ed errore cronologico e un eccessivo smussamento di momenti ed elementi certo piú drammatici e di piú forti sbandamenti dell’«avventuriero onorato» nella passione del giuocatore d’azzardo, nella tentazione e negli intrighi della passione amorosa, ma che sostanzialmente appare giustamente fedele a quello spirito di verità che il poeta dichiarava nella prefazione dei Mémoires «ma vertu favorite») che tuttora si può ridescrivere, per sommi capi, la vicenda vitale di questo grande scrittore, la cui poesia non nasce da una concentrazione profonda e da una solitudine in opposizione al «mondo» e al flusso delle vicende personali e del suo tempo, ma viceversa sembra scaturire, variamente intensa e sicura, da un attrito costante entro l’attività artistica, entro la vita e la realtà umana, entro la loro amatissima, avventurosa, incessante trasformazione, entro il calore fertile e lieto dell’esperienza e dell’interesse per i rapporti della società umana, per la varietà ed omogeneità degli individui e dei loro caratteri personali e sociali.

Carlo Goldoni nacque a Venezia, il 25 febbraio 1707, da Giulio, veneziano di nascita, ma di origine modenese, e da Margherita Salvioni, in una famiglia borghese che, dopo i larghi agi e la dissipazione del nonno paterno, conosceva ristrettezze e difficoltà variamente piú stringenti o piú superate a seconda delle fortune del capofamiglia, «avventuriero onorato» (e cosí il Goldoni amerà definire anche se stesso), mosso da una singolare «manie» di cambiamenti di residenza («mon père... ne pouvoit se fixer nulle part, manie qu’il a laissé en héritage à son fils»), e dedicatosi avventurosamente e tardivamente alla professione medica esercitata in varie città e paesi dell’Italia settentrionale e centrale.

Egli si era a un certo punto stabilito a Perugia e in quella città, dopo vari anni di separazione dalla famiglia rimasta a Venezia, fece venire Carlo che, dal 1716 al 1720, vi compí, nel collegio dei gesuiti, i primi studi, alternandoli con precoci letture di opere comiche, già iniziate nella casa veneziana (quando egli avrebbe già scritto, sugli otto o nove anni, una piccola commedia) e con un’applaudita prestazione di attore come personaggio femminile nella recita della Sorellina di Don Pilone del Gigli in una sala del palazzo degli Antinori, clienti e protettori del padre. E furon proprio, insieme alla nostalgia della madre, la precoce passione teatrale e la simpatia per i comici, amati, fra «mondo» e «teatro», per il loro costume avventuroso di artisti, che spinsero poi il ragazzo a interrompere gli insopportabili studi superiori di filosofia scolastica, iniziati a Rimini presso i padri domenicani (fra 1720 e 1721) e a fuggire in barca con la compagnia di Florindo de’ Maccheroni[1] a Chioggia, dove il padre acconsentí al suo desiderio di rivolgersi agli studi di legge e lo inviò a Venezia a far pratica legale presso uno zio, l’avvocato Giampaolo Indrich, in attesa di sistemarlo a Pavia dove – in seguito alle sue avventurose peregrinazioni – era riuscito a procurargli un posto nel Collegio Ghislieri e dove Carlo poi frequentò, dal ’23 al ’25, i corsi di giurisprudenza.

Ma anche a Pavia la vocazione poetico-comica (che trovava alimento in nuove e piú larghe letture di opere teatrali inglesi, spagnole e francesi, a cui si aggiungeva poi la scoperta entusiasmante, a Chioggia durante una vacanza, della Mandragola) intervenne a rompere la routine dell’apprendista avvocato, quando egli si lasciò indurre da alcuni maligni compagni a scrivere una specie di «atellana», Il Colosso, che, descrivendo una mostruosa statua della bellezza femminile, formata con le varie parti del corpo di ragazze pavesi, illustrate e criticate, suscitò le ire delle famiglie di quelle ragazze e costò al Goldoni l’espulsione dal Collegio Ghislieri.

Egli tornò allora a Chioggia per poi seguire il padre – fra ’25 e ’27 – in lunghi viaggi e soggiorni nel Friuli, a Gorizia, a Lubiana, a Graz: liete esperienze di vita e di paesi, avventure erotiche iniziate e interrotte, fra scapataggine giovanile e istintivo gusto dell’intrigo amoroso, in mezzo alle quali può trovar luogo, accanto alla fiacca e solitaria continuazione degli studi giuridici a Udine, una prestazione registica del giovane appassionato di teatro con l’allestimento, a Vipacco, nel castello del conte Lantieri, della «bambocciata» del Martello, Lo starnuto di Ercole[2].

E cosí avventure amorose, esperienze del «mondo» entro la cerchia ristretta e stimolante di una vita cittadina provinciale, e prime prestazioni di scrittore comico, ancora in forme artigianali e dilettantesche (i due primi intermezzi, Il buon padre e La cantatrice del ’29), s’intrecciano alla ripresa degli studi e ad una empirica attività giuridica nei nuovi soggiorni a Modena, a Chioggia, a Feltre, a Bagnacavallo, dove il padre, nel gennaio del ’31, muore improvvisamente.

Dalla morte del padre e dalle difficoltà finanziarie della famiglia il Goldoni è costretto, anche se riluttante, a completare gli studi giuridici, a prender la laurea a Padova (dopo una notte passata al tavolo da giuoco!) e ad esercitare quella professione di avvocato che costituirà pure per lui una esperienza di vita di «mondo», riflessa a volte in certo gusto causidico o avvocatesco del suo linguaggio comico giovanile (fra uso diretto di forme di oratoria giuridica e uso ironico-comico di moduli da dottor Balanzon).

Ma anche questa attività, già intrecciata con saltuarie prestazioni di scrittore e pubblicista (l’almanacco del ’32, L’esperienza del passato, Astrologo dell’avvenire o la tragedia per musica Amalasunta), viene presto bruscamente interrotta da una sfortunata vicenda amorosa con una dama e con la sua nipote con cui egli è costretto a fidanzarsi controvoglia, sicché per evitare un matrimonio infelice, nel ’32, deve abbandonare la famiglia e Venezia e rifugiarsi a Milano, dove «l’avventuriero onorato» diviene gentiluomo di camera e poi segretario del residente di Venezia che egli segue a Crema, per poi venirne licenziato dopo un aspro dissenso. Di nuovo, entro un ritmo folto e rapido di avventure e di casi, di squilibri e riequilibri della sua mobile fortuna, si affacciano occasioni propizie all’esercizio della sua passione teatrale, tra le quali (dopo aver promosso spettacoli a Milano e aver scritto l’intermezzo giocoso Il gondoliere veneziano e la tragicommedia Belisario, per il capocomico Vitali e per il primo attore Casali) l’incontro a Verona, nel 1734, con il capocomico Giuseppe Imer, che conquista con la lettura del Belisario, componendo per lui un nuovo intermezzo giocoso, La pupilla, e seguendolo come poeta comico prima al teatro San Samuele di Venezia e poi a Genova.

Mentre cosí iniziava la sua feconda e pur difficile collaborazione con i comici di mestiere, a Genova, nel ’36, incontrava una fanciulla, Nicoletta Conio, che divenne la sua compagna fedele e condivise da allora in poi la sua vita avventurosa e «ambulante», portandovi un elemento di maggiore regolarità e frenando le piú dispersive tendenze dello scrittore: la passione del giuoco, la rovinosa galanteria, la prodigalità e il disordine nella propria piccola amministrazione.

Con lei il Goldoni ritornò a Venezia rimanendovi per alcuni anni, fino al ’43, intensificando la sua attività di scrittore teatrale, al servizio dell’Imer e del nobiluomo Grimani, proprietario del San Samuele e del San Giovanni Grisostomo, e iniziando quella riforma del teatro che (per quanto nei Mémoires sia configurata nelle forme di una volontà e consapevolezza di scopi, e soprattutto con una gradualità di attuazione, senza dubbio superiori alla realtà) venne impostata piú centralmente sulla vera e propria commedia, dopo un esercizio piú compatto di tragicommedie e tragedie come il Rinaldo di Montalbano e l’Enrico re di Sicilia, continuato saltuariamente con opere per musica quali il Gustavo Vasa, l’Oronte re de’ Sciti e la Statira.

Nel ’38 infatti il Goldoni componeva il Momolo cortesan, canovaccio da commedia dell’arte, ma con la parte del protagonista interamente scritta, e – con tale metodo ibrido, ma già singolarmente efficace nello sfruttamento delle qualità inventive dei comici dell’arte e nel loro indirizzo alla recitazione di una parte organicamente scritta – proseguiva poi con Il prodigo ossia Momolo sulla Brenta, con La bancarotta ossia Il mercante due volte fallito, per giungere nel ’43 (pur dopo intermedie concessioni agli attori e al pubblico in commedie interamente «a soggetto» come Le trentadue disgrazie di Arlecchino) alla Donna di garbo che sarà rappresentata solo quattro anni dopo, e che è la sua prima commedia interamente scritta.

Ma intanto, malgrado la sua attività teatrale e qualche sporadico ritorno alla professione legale (cui si aggiunse, dal ’41 al ’43, un singolare incarico diplomatico come console della Repubblica di Genova che non gli fruttò emolumenti, ma poté costituire un’esperienza di avvenimenti politici osservati, riferiti e spesso giudicati con notevole acume, utile alla sua piú generale conoscenza del «mondo»), la situazione finanziaria del Goldoni si faceva particolarmente pesante anche per il peso di uno scioperato fratello, per la cessazione, a causa della guerra, dell’introito di alcune rendite dell’eredità modenese del padre e per la truffa di un avventuriero raguseo.

Perseguitato dai creditori il poeta dové cosí, con la moglie, abbandonare precipitosamente Venezia aggregandosi, in Rimini, a una compagnia di comici al servizio dell’esercito spagnolo che combatteva in Romagna nella guerra di successione austriaca. Si trovò pertanto, con Nicoletta, nelle peripezie della guerra, saltuariamente esercitando le sue qualità di scrittore ora al servizio degli spagnoli ora al servizio degli austriaci e trovandosi a volte esposto a pericoli gravi e ad avventure complicate, che nella narrazione dei Mémoires provocano quel brillante ritmo raccorciato e rapido di peripezie a lieto fine che è costitutivo di quell’opera autobiografica e che si alimenta indubbiamente delle forme autentiche dell’esperienza vitale e della Weltanschauung del Goldoni[3].

Al termine di queste peripezie il poeta pensò (con l’idea poi abbandonata di raggiungere Genova e la casa della moglie) di passare per la Toscana per visitarla e per «familiarizzarsi» con fiorentini e i senesi «qui sont les textes vivants de la bonne langue italienne». Passò cosí quattro mesi a Firenze, dove entrò in amicizia col Rucellai, il Cocchi, il Gori, il Lami (autorevoli rappresentanti della cultura riformistica toscana), e, dopo un breve soggiorno a Siena, dove ammirò esageratamente il famoso improvvisatore Bernardino Perfetti (esagerazione che pur si comprende nel gusto goldoniano della facilità inventiva e della pronta comunicabilità poetica), si recò a Pisa dove intendeva rimanere pochi giorni e vi rimase invece per tre anni interi, dall’autunno del 1744 alla Pasqua del ’48, avendovi trovato accoglienza generosa e occasione di sistemazione agiata nella ripresa attivissima della professione di avvocato.

Fu per lui un periodo felice e lieto, cosí ben caratterizzato nei modi di estrema socievolezza della civiltà settecentesca, a lui cosí congeniali, attraverso i quali la sua stessa sistemazione pisana fu occasionata da un suo casuale ingresso nel giardino di palazzo Scotto, durante una seduta della colonia arcadica di Pisa, e della sua recita di un sonetto che gli procurò l’ammirazione e l’amicizia dei colti nobili e borghesi pisani[4]: un periodo di lavoro legale, ma insieme di incontri e svaghi in una società colta e civile che dové contribuire parecchio anche all’allargamento delle conoscenze letterarie goldoniane, a un maggiore e piú concreto contatto con una tradizione letteraria, teatrale e linguistica che non fu senza importanza nella maturazione della sua personalità.

Del resto l’attività forense non restò unica nel suo soggiorno pisano, ché una lettera del Sacchi e una visita dell’altro famoso Arlecchino, il Darbes, lo spinsero a tornare all’attività comica con il Tonin bella grazia, Il figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato, Il servitore di due padroni. E mentre a Livorno egli assisteva alla recita e al successo della Donna di garbo da parte della compagnia del Medebach, venne da questo impegnato – nel settembre del ’47 – a divenir suo poeta comico a Venezia, al teatro Sant’Angelo. Con il ritorno a Venezia nel 1748, l’attività comica goldoniana assume il suo ritmo piú intenso ed impegnativo, s’impone e si crea un pubblico, si adopera a difenderlo contro la rivalità e l’inimicizia del Chiari, si precisa – attraverso questa lotta a suo modo vigorosa e persuasa, in cui il Goldoni uomo e poeta impegna e rivela la sua salda, inesausta energia, la sua profonda volontà artistica, la sua vocazione geniale – nella sua concreta qualità di riforma e di creazione di un nuovo teatro in cui convergono e si fondono l’acuta sensibilità storico-sociale, la curiosità profonda per il «mondo» e per il suo fecondo movimento di apertura e di intrinseca libertà, e le alte qualità comico-teatrali del Goldoni.

Al di là delle prime prove del ’48-49 (La vedova scaltra, La putta onorata, La bona mugèr, Il cavaliere e la dama) è nel ’50-51 che il Goldoni condusse la sua piú celebre e audace battaglia teatrale, con l’impegno, mantenuto e superato, delle sedici commedie nuove aperte dal programma di poetica in azione del Teatro comico e poi continuate – nella foga di un’ispirazione che cresce, varia, si allenta ed elasticamente si riprende e consolida – con le altre diciassette commedie del ’51-52 e con quelle del ’52-53, fra cui spicca, come vertice di questo eroico periodo, La locandiera.

Egli aveva cosí anche assolto il suo impegno di autore stipendiato dal Medebach. Sicché, accortosi della molto dubbia generosità di questo, poté abbandonarlo e passare, nell’aprile del ’53, alle dipendenze dei fratelli Vendramin, proprietari del teatro San Luca.

Qui il lavoro poetico del Goldoni sembra subire i contraccolpi negativi del suo stesso successo, non facile da mantenere, e della gara con il Chiari e dei mutamenti del gusto percepibili in quegli anni verso il romanzesco, l’esotico, il fantastico, nonché delle crescenti critiche linguistiche e letterarie dell’Accademia purista dei Granelleschi e, poi, di Carlo Gozzi.

È l’epoca lunga e complicata che giungerà fino al ’58-59 e che vede il poeta alternare l’attività per il suo pubblico veneziano con quella in altre piazze teatrali d’Italia (a Bologna nel ’55, a Parma nel ’56, a Roma nel ’58-59 al teatro di Tordinona) e impegnarsi – con costante lena ma con maggiore frequenza di incertezze, ritorni, sbandamenti di gusto, pur con effettivi arricchimenti e con puntate intense nel suo mondo poetico piú vero: si pensi al Campiello – in una lotta a piú fronti, accettando dai suoi rivali, e dalle esigenze nuove del pubblico, il verso martelliano, la favola complicata e romanzesca, l’insaporimento esotico e patetico delle vicende, spostando spesso il centro del suo piú geniale interesse dalla poesia del «vero» e del «naturale», con cui aveva già conquistato l’ammirazione del grande Voltaire[5], verso la peripezia, la grandiosità d’effetto (le portentose macchine di vicende e di folla di personaggi del barone di Liveri), e certo sentimentalismo irrorato di spiriti vagamente preromantici-romanzeschi.

Eppure, come poi meglio vedremo, non mancarono in questo periodo opere autentiche e originali, e l’esperienza generale di questi anni fu importante per la grande ripresa dell’ultima stagione veneziana, successiva ai due anni (’58-59) passati a Roma. È il periodo ’59-62, durante il quale il Goldoni, ritornato al teatro San Luca, raggiunse la piena maturità della sua grande poesia: dagli Innamorati ai Rusteghi, alla Casa nova, a Sior Todero brontolon, alle Baruffe chiozzotte.

Ma, nonostante questi capolavori con cui il Goldoni si affermava come poeta profondo della simpatia per la vita degli uomini entro la situazione concreta di una società – quella veneziana – interpretata e rappresentata in sé e nel suo significato di civitas mondana (piena di vivace socievolezza e mossa, malgrado le forti remore della struttura sociale e politica della repubblica oligarchica e conservatrice, da un certo processo di affermazione della borghesia e del popolo e da prudenti iniziative riformistiche di alcuni esponenti della stessa classe dirigente aristocratica), la sua situazione a Venezia si fece sempre piú difficile a causa della guerra dura ed abile condotta contro di lui da rivali e nemici sempre piú agguerriti e decisi, come Carlo Gozzi, con il successo popolare delle sue Fiabe e con le sue chiare denunce circa lo spirito di «insubordinazione» contro la nobiltà e di sovversione sociale delle commedie goldoniane.

Né, d’altra parte, può svalutarsi l’attrazione che l’invito del Théâtre Italien di Parigi a un impegno per due anni, con onorevole provvisione, poté esercitare sul Goldoni e sul suo desiderio di portare il proprio teatro alla conquista della maggiore capitale dell’Europa continentale.

Cosí nell’aprile del ’62 (dopo la rappresentazione – il 23 febbraio – di Una delle ultime sere di carnovale, addio festoso e patetico alla città della sua vita e della sua poesia) il Goldoni partí per Parigi dove rimarrà, senza interruzioni, sino alla morte.

Ma se Parigi divenne subito oggetto di vivo amore per il Goldoni che vi verificava insieme il suo esaltante gusto per la realtà, piú ricca di quanto ci si possa immaginare, e la sua passione per la città organizzata, per la vita socievole e comoda, e se a Parigi egli trovò consuetudini di amicizie e ammirazione alta dei «philosophes» e dei letterati e artisti piú avanzati (Voltaire, Rousseau, Diderot, Fréron, Rameau), la direzione della Comédie Italienne risultò piú difficile del previsto: attori impreparati e diffidenti di fronte alla «riforma» goldoniana, pubblico fedele alla commedia dell’arte come alternativa ben distinta al tipo di commedia larmoyante o alla tragedia classicistica.

Sicché il poeta ormai anziano dové, con la sua instancabile pazienza e fiducia attiva, ricominciare come daccapo, in ambiente francese, l’opera della sua riforma: dalla composizione di semplici «canovacci» (da cui spesso pur ricavava «commedie», come il Ventaglio, che inviava a Venezia, al Vendramin) risalire pian piano alla commedia interamente scritta, prima con le maschere (come L’amor paterno, del ’63), poi, assai piú tardi, interamente di «carattere».

Come furono Le bourru bienfaisant, rappresentato con grande successo il 4 novembre 1771, e – con diverso esito – l’Avare fastueux, del 1776. Ma queste ultime commedie in francese furono scritte già fuori dell’impegno con la Comédie Italienne scaduto nel ’64, quando il Goldoni trovò impiego, nel ’65, come maestro d’italiano di Madama di Francia, la primogenita di Luigi XV, per poi, nel 1771, divenire ancora maestro d’italiano «des enfants de France» e pensionato con un migliore, ma sempre modesto stipendio. Finché, abbandonata Versailles, dove era vissuto in quegli anni, lieto dell’amicizia e benevolenza di re e principi, ma poco dotato di qualità cortigiane alla cui mancanza egli attribuí il suo relativo successo di fortuna («j’étois à la Cour, et je n’étois pas courtisan[6]»), il Goldoni ottenne da Luigi XVI una gratificazione straordinaria e un onorario annuo, alla cui modestia il vecchio scrittore cercò di sopperire con imprese pubblicistiche ed editoriali, come quella, fallita, di un «Giornale di corrispondenza italiana e francese»[7], nel 1783, o come la traduzione in italiano dell’Histoire de miss Jenny di Madame Riccoboni uscita a Venezia nel 1791. E intanto scriveva, con singolare piacere, i suoi Mémoires che, nella terza parte, dedicata al soggiorno parigino, si aprono, al di là delle vicende personali, al compiaciuto frequente indugio su aspetti della vita parigina nella sua avida curiosità di cose nuove (il pallone aerostatico, le scoperte piú assurde, i nuovi giornali seri o scandalistici, i nuovi spettacoli), nella sua fervida socievolezza a vari livelli sociali, nella sua lieta fruizione di nuove sistemazioni urbanistiche (come quella del Palais Royal). Attenzione mai spenta alla vita associata, alla città e alla natura organizzata per la comodità e l’agevolezza dei rapporti fra gli uomini, che ci conferma, anche in questa estrema stagione della vita goldoniana, la forza di simpatia vitale, la riserva di fiducia e di ottimismo proprie di questo intenso rappresentante della settecentesca «joie de vivre», su cui mai s’imposero definitivamente la stanchezza, la noia, l’ombra della morte, anche quando questa era cosí vicina, e quando malattie e miseria cosí mal corrispondevano alla sua imponente opera di scrittore e di uomo di teatro.

Nel 1792 quel «buon vecchietto» (come lo chiamò nella sua Vita l’Alfieri, che lo aveva piú volte visitato a Parigi) aveva sofferto una grave malattia e, nel luglio, gli era stata tolta, per decreto della Convenzione, la pensione reale che era ormai l’unica fonte di sostentamento per lui e per l’amorosissima compagna.

Morí il 6 febbraio 1793, un giorno prima che Joseph-Marie Chénier perorasse in suo favore davanti alla Convenzione e ottenesse la restituzione della sua pensione, come ben dovuta a uno scrittore che con la sua opera aveva pur contribuito alla causa della libertà e della rivoluzione.


1 Il racconto di quel viaggio in compagnia dei comici, vivacemente descritti nella loro vita spensierata e capricciosa, anima una delle pagine piú deliziose dei Mémoires (in Tutte le opere di C.G., a cura di G. Ortolani, Milano 1935, vol. I, pp. 24-25. Questa edizione, che è stata seguita anche per le altre citazioni, verrà successivamente indicata col titolo abbreviato Opere).

2 Che può indicare anche una acuta capacità di scelta del giovane Goldoni. E il giudizio che di quella commedia per burattini dà poi il Goldoni nei Mémoires è pure di rara acutezza e di forte aiuto per l’interpretazione di quella squisita opera martelliana (sulla quale si veda il mio saggio Pier Jacopo Martello e le sue commedie «per letterati», nel vol. W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 19843, pp. 152 ss).

3 Si rilegga cosí il c. XLVI della prima parte dei Mémoires che narra della fuga degli spagnoli, del furto del suo bagaglio ad opera di ussari austriaci e del suo fortunoso recupero in un andirivieni romanzesco di peripezie, di provvidenziali incontri fino alla soluzione felice (Opere, ed. cit., vol. I, pp. 208-212).

4 È un episodio giustamente noto per la pagina ariosa dei Mémoires che lo rievoca e per il suo significato rivelativo del costume socievole settecentesco, che nella vita delle colonie arcadiche (anche in una fase ormai piú stanca e convenzionale) trovava una sua precisa estrinsecazione, permettendo anche il facile «riconoscimento» fra letterati italiani di varie «patrie» locali.

5 Si tratta dei noti versi sul Goldoni «pittore perfetto della natura» che il Voltaire mandò all’Albergati e che furono poi stampati nel n. 45 della «Gazzetta Veneta»:

Aux critiques, aux rivaux

la Nature a dit, sans feinte:

«Tout auteur a ses défauts,

mais ce Goldoni m’a peinte».

6 Mémoires, troisième partie, chap. VII, in Opere, ed. cit. vol. I, p. 466.

7 Il programma di quel giornale interessa come indice del forte gusto goldoniano di curiosità per la cultura e il costume mai dissociati, del suo istintivo bisogno di divulgazione e di diffusione di idee nuove e di nuove abitudini a cui si legava anche l’origine di molte delle sue commedie. «L’histoire, les sciences, les arts, les découvertes, les projets, la typographie, les spectacles, la musique, les loix, la police, les moeurs, les usages, les caracteres nationaux, les fêtes publiques, les cérémonies, les nouvelles, les anecdotes» (Mémoires, troisième partie, chap. XXXV, in Opere, ed. cit., vol. I, p. 585). E può persino interessare per il finale scherzoso in cui, assicurando il lettore che gli estensori del giornale associeranno il loro «zèle pour le public» e «l’attention à leur propre intérêt», il Goldoni affermerà, da buon scrittore borghese, che «l’homme riche ne travaille gueres».